In vista dell’emanazione delle linee guida sui certificati bianchi continua il dibattito sui temi principali. Fra questi merita attenzione l’addizionalità, uno degli aspetti più interessanti e complessi da gestire e su cui da sempre si cerca di trovare il giusto equilibrio fra le esigenze dei policy maker, dei valutatori e degli operatori. L’addizionalità, però, è solo uno degli elementi alla base dell’efficacia di un meccanismo di incentivazione. Efficacia di cui si parla poco e in genere riferendosi al costo specifico dello schema (che però non è di per sé non fornisce indicazioni in tal senso). Nell’articolo che segue ho provato a sintetizzare altri elementi meno considerati ma ugualmente importanti da questo punto di vista: la materialità e il livello di incentivazione.
Pubblicato su: Qualenergia.
Di recente Emanuele Regalini ha pubblicato la prima parte di un suo interessante documento sull’addizionalità, in cui illustra con molta chiarezza il tema, in particolare in collegamento allo schema dei certificati bianchi. È una lettura che consiglio, sia per la qualità, sia perché non è facile trovare testi in Italiano che trattino l’argomento, anche se l’opera non è ancora completa (manca la parte sulle proposte che l’autore sta scrivendo).
Quando si parla di schemi di incentivazione l’addizionalità è un aspetto importante. Si tratta di evitare di erogare contributi pubblici a interventi i cui benefici (in questo caso energetici) siano in linea con quanto ottenuto in media in progetti volti a conseguire lo stesso risultato. Se sostituisco oggi una caldaia, ad esempio, otterrò un certo livello di risparmio energetico rispetto alla vecchia installazione, in ragione del miglioramento tecnologico, dei requisiti prestazionali minimi prescritti dalla legge e dei trend di mercato. L’addizionalità richiede che possa essere incentivata solo una tecnologia capace di conseguire risparmi superiori a questa media di mercato o baseline di riferimento. È uno dei principi previsti dall’art. 7 della direttiva 2012/27/UE (EED) in relazione agli schemi di supporto per l’efficienza energetica e la sua logica è quella di promuovere un consistente miglioramento dell’uso finale dell’energia, andando oltre gli obiettivi minimi definiti a livello comunitario o di Stato Membro.
Quando si parla di certificati bianchi si finisce sempre per parlare anche di addizionalità, non solo perché è l’unico schema nazionale che la valuta in modo esteso e organico, ma anche perché è uno dei temi più controversi. Se infatti il concetto di base è chiaro e in larga parte condivisibile, la sua applicazione pratica è tutt’altro che scontata, specie trattando i processi produttivi in campo industriale. L’addizionalità ha dunque giocato un ruolo significativo sia nella definizione delle schede standard e analitiche – dove è stato compito di MiSE, AEEGSI, ENEA, RSE e altri soggetti (università e associazioni come FIRE) valutare la baseline di riferimento –, sia per i progetti a consuntivo – per i quali spetta al proponente il compito di definirne i valori e al valutatore (ora il GSE) verificarne l’attendibilità.
Concetti così complessi è normale che presentino dei problemi di attuazione, ma tutto sommato possiamo ritenerci soddisfatti di quanto è stato fatto, specie in relazione a molti meccanismi adottati in altri Paesi. Nonostante questo sono molte le critiche e le richieste di maggiore chiarezza sui criteri di valutazione dell’addizionalità. Il MiSE, attraverso i suoi funzionari, ha anticipato che le nuove linee guida chiariranno meglio diversi aspetti. La mia idea, però, è che sia illusorio pensare di superare il problema: più si definiranno i criteri, più saranno articolate e complesse le configurazioni dubbie che si presenteranno a proponenti e valutatori. L’unico modo di far marciare lo schema è discutere di casi applicativi il più possibile.
Ben vengano dunque gli incontri che il GSE farà con le varie associazioni e che riprenderanno, sebbene in modo differente, la prassi stabilita negli anni passati da ENEA, molto apprezzata dagli operatori. Un confronto continuo su questi temi aiuterà proponenti e valutatori a chiarire (e chiarirsi) l’applicazione dell’addizionalità. I benefici saranno molteplici per tutti.
Ciò premesso, l’addizionalità è solo uno degli aspetti che partecipano alla bontà di uno schema di incentivazione. Un secondo tema fondamentale, ma molto meno noto e discusso, è la materialità, come viene chiamata in letteratura. Se l’addizionalità vuole premiare l’andare oltre la media di mercato, la materialità richiede che vengano premiati solo gli interventi che non si sarebbero comunque fatti in assenza di incentivo, perché di interesse dell’utente finale.
Riprendendo la caldaia di prima, la sua sostituzione con un modello più efficiente della media di mercato potrebbe dipendere dalla presenza dell’incentivo (e.g. installo una caldaia a condensazione perché prendo le detrazioni fiscali o il conto termico, altrimenti ne metterei una non a condensazione oppure terrei quella esistente) o dalle scelte maturate dall’utente a prescindere dall’incentivo (e.g. potrei installare la caldaia a condensazione semplicemente perché più conveniente in termini economici, come verificato con un’analisi costi-benefici, o perché fanatico delle soluzioni a più alta efficienza). Nel secondo caso, evidentemente, l’incentivo risulta inutile a conseguire il risultato e dunque sprecato: lo schema applicato al caso in esame risulterebbe ugualmente addizionale, ma non materiale.
Un determinato intervento può dunque avere differenti combinazioni di addizionalità e materialità. L’art. 7 della direttiva EED promuove ovviamente gli schemi che sappiano coniugare entrambi i concetti, in quanto più efficaci e produttivi. Se l’addizionalità pone problemi di valutazione, la materialità non è da meno. In teoria risponde a una domanda banale: l’intervento è stato realizzato per la presenza dell’incentivo? Solo che ottenere una risposta non è facile. Se lo si chiedesse agli interessati la possibilità di risposte non proprio sincere sarebbe elevata.
In pratica solo la Danimarca, per quanto di mia conoscenza, ha provato a valutarla. L’idea applicata a tale scopo è stata: se chiedo oggi a un campione di soggetti l’interesse a realizzare alcune tipologie di interventi e ottengo una serie di risposte negative e riproponendo il quesito dopo tre anni, una volta introdotto l’incentivo, aumentano le risposte affermative, allora la materialità è garantita. Il fatto, però, è che nei tre anni potrebbe essere cambiata la propensione dei medesimi soggetti a realizzare gli interventi a prescindere dalla presenza dell’incentivo (ad esempio come effetto di campagne di sensibilizzazione e informazione o per imitazione dei competitor leader di mercato). Gli esiti della valutazione danese presentano dunque un grado di attendibilità almeno in parte opinabile, ma perlomeno ci hanno provato.
La materialità non è mai stata valutata nei nostri schemi, ed è un punto a sfavore, perché l’efficacia di un meccanismo di supporto dipende più dalla materialità che non dall’addizionalità. Può infatti avere senso incentivare comunque un intervento non addizionale, ad esempio per godere dei benefici di sistema (Regalini fa l’esemplare esempio delle campagne di rottamazione delle auto, in cui l’addizionalità non c’è, ma il beneficio in termini di miglioramento del parco circolante sono molto elevati). È invece difficile sostenere l’utilità di soldi dati a un intervento che si sarebbe fatto a prescindere. Lo schema dei TEE, da questo punto di vista, evidenzia situazioni variegate. Alcuni interventi, come le lampadine della prima ora, sono state proposte a causa dello schema, in tal caso pienamente materiale. Molti interventi nell’industria, al contrario, hanno preso l’incentivo pur essendo stati già realizzati, dunque in totale assenza di materialità e di efficacia. Anche le regole introdotte dal D.M. 28 dicembre 2012, che giustamente hanno introdotto l’obbligo di presentare le PPPM prima dell’avvio del progetto, non garantiscono la materialità, pur migliorando indubbiamente la situazione. Ragionare su questo tema sarebbe utile.
Comunque non è finita qui. C’è infatti un terzo elemento che concorre all’efficacia dei meccanismi di supporto, ed è il livello di incentivazione rispetto al costo sul ciclo di vita del progetto realizzato. Si tratta di un tema strettamente connesso con la materialità: se infatti il contributo offerto dall’incentivo è troppo basso, gli interventi realizzati non potranno essere attribuiti ad esso, mentre un valore consistente garantirà una materialità elevata. A prescindere dal regolamento europeo sugli aiuti di stato, che pone vincoli definiti all’entità massima dell’incentivo con riferimento all’extracosto rispetto alla baseline di riferimento, e a prescindere dall’applicabilità allo schema dei TEE, è evidente che erogare un supporto inutilmente elevato si traduce in uno spreco di risorse.
Anche in questo caso, inutile dirlo, valutare il livello di supporto è tutt’altro che banale. Intanto occorre decidere su cosa valutarlo: costo di investimento, costo di investimento più costi operativi, life cycle cost (LCC)? La terza opzione è probabilmente la più corretta, ma richiede valutazioni più complesse. La prima è più semplice e verificabile, ma offre una visione molto limitata del problema (alcuni interventi presentano sul ciclo di vita una prevalenza di costi di investimento, altri di costi operativi; i secondi sarebbero penalizzati da una valutazione limitata alle spese iniziali).
Un derivato della prima opzione è il pay-back time (PBT), che divide l’investimento per il risparmio annuo atteso. Anche in questo caso si tratta di una visione limitata, che tra l’altro introduce nel calcolo un elemento variabile quale il prezzo dell’energia. È però l’opzione più diffusa, in quanto adottata in Francia e Danimarca, come soglia di ammissione allo schema, e in Svizzera, con una più equa riduzione percentuale lineare dell’incentivo al di sotto di un certa soglia di PBT (per calare l’approccio al nostro schema dei TEE, si potrebbe ad esempio avere la non ammissibilità dei progetti sotto un PBT di un anno, il 100% dei TEE oltre i tre anni, e una crescita lineare dei titoli riconosciuti fra PBT di un anno e PBT di tre anni). Il tutto con i certificati bianchi è complicato dal fatto che essi assumono valori variabili nel tempo e non vi è certezza nemmeno della vendita dei titoli, in quanto dipende dallo stato di domanda e offerta. Qualunque scelta si adotti, anche in questo caso le valutazioni presentano non poche problematiche e si rischia di tagliare interventi meritevoli adottando gli approcci più semplici. Una valutazione caso per caso sarebbe invece ingestibile.
In conclusione, per avere uno schema di supporto efficace occorre avere dei buoni livelli di addizionalità e materialità e un valore adeguato dell’incentivo (non solamente un basso valore del costo totale rispetto ai kWh risparmiati, che poco dice sull’efficacia della policy). Un mix utopico se si cerca la perfezione, ma lo schema dei certificati bianchi per lo meno ha un buon punto di partenza: l’addizionalità è sicuramente buona, la materialità da indagare e migliorare, il contributo economico rispetto al costo di investimento presumibilmente nella media nella maggior parte dei casi, con delle notevoli eccezioni di sovraincentivazione (come segnalato alcuni anni or sono nelle valutazioni condotte da FIRE in collaborazione con ENEA) risolvibili con regole adeguate.
Quello che è certo è che in un periodo di risorse scarse è essenziale usare al meglio i soldi pubblici e quelli prelevati dalle bollette di elettricità e gas (per usi diversi dal canone RAI, si intende). Al di là di quello che diranno le nuove linee guida dello schema dei TEE, che si confida chiariscano meglio una serie di aspetti, sarà essenziale monitorare questi importanti elementi che concorrono all’efficacia dello schema e favorire al massimo un confronto fra tutti gli stakeholder volto non a discussioni di principio, ma a decidere come interpretare al meglio la complessità nei casi reali.
grazie per averci deliziato di questo articolo in cui sei riuscito ad analizzare con chiarezza e semplicità’ quali sono le criticità alla base dell’individuazione di uno strumento incentivante.