Efficienza energetica e fonti rinnovabili termiche sono un’opportunità per gli edifici e l’economia del Paese. Un sistema di regole complesse all’inverosimile, unito all’ottica assistenzialista che ancora caratterizza molti imprenditori nazionali, frena però lo sviluppo del mercato.
Memoria presentata alla 4a Conferenza per le rinnovabili termiche degli Amici della Terra il 13 maggio 2013.
Energia elettrica e calore vedono fra i consumatori principali i circa 13 milioni di edifici, siano essi condomini, uffici, centri commerciali o centri produttivi. Per soddisfare la richiesta storicamente si sono confrontate le soluzioni distribuite con quelle centralizzate. Le prime hanno prevalso nel termico e le seconde nell’elettrico, e dovrebbe fare riflettere che nei due casi si è assistito alla tendenza a bilanciare grandi e piccoli impianti, piuttosto che a estremizzare l’evoluzione storica. La ragione è semplice: i piccoli impianti riducono le perdite di rete e possono essere dimensionati in modo ottimale sulle esigenze delle utenze, mentre i grandi impianti garantiscono delle efficienze di scala (economiche, energetiche, ambientali e di sicurezza), ciascun gruppo facendosi forte delle debolezze dell’altro.
Tutto ciò è avvenuto in parte in conseguenza, in parte nonostante le continue modifiche del quadro legislativo e regolatorio, inquadrato in una trasformazione globale, che ha visto il Protocollo di Kyoto e il Pacchetto 20-20-20 fra gli accordi più noti a livello internazionale. In altre parole il sistema energetico, pur nella sua complessità, ha saputo evolvere negli ultimi venti anni, e ora servirebbe concentrarsi su come modificare il quadro di regole per gestirlo al meglio. Il nostro modo di scrivere le leggi e fare politica si è però involuto e una conferma sono i dibattiti sul tema che si perdono più in diatribe sugli errori fatti e in richieste di sussidi per coprire le ingenuità imprenditoriali che non in proposte rivolte al nuovo.
In Italia, dopo avere sciupato l’opportunità legata all’applicazione della legge 10/91, si sono introdotte una serie di misure volte a favorire l’utilizzo dell’efficienza energetica e delle fonti rinnovabili negli edifici. Si è agito sui requisiti minimi obbligatori (coibentazione, trasmittanze, rendimenti minimi degli impianti, percentuale di produzione da rinnovabili per i nuovi edifici), sulla sensibilizzazione (certificazione ed etichettatura energetica), sulla domanda (stimolata con strumenti come le detrazioni fiscali e il conto termico) e sull’offerta (certificati bianchi).
Il quadro di regole sembrerebbe dunque più che idoneo e oggi come oggi non fare efficienza e utilizzare le fonti rinnovabili sembrerebbe un’impresa. In realtà quello che si è perso dello spirito della legge 10/91 è la sua visione integrata e razionale, sostituita da provvedimenti mirati allo stesso fine, ma spesso scoordinati. Il risultato è stato un mix di incentivi eccessivi – con le ovvie conseguenze in termini di promozione della speculazione in luogo del mercato sano -, di incremento costante della complessità dei programmi di supporto – fonte di corruzione, nonostante i continui proclami sulla semplificazione -, di sviluppo non armonico del mercato elettrico e di contrasto evidente fra istituzioni dello Stato.
Il paradosso è che in più occasioni i provvedimenti creati per favorire si sono trasformati in trappole per la crescita, nonostante le buone intenzioni degli investitori. Per invertire la rotta conviene ripartire dalle basi. Intanto dall’approccio del bravo gestore – pubblico o privato -, che valuta con cura la situazione (e dunque impegna risorse per diagnosi, studi di settore, gruppi di lavoro), decide obiettivi quantitativi da raggiungere, si dota di politiche e procedure in grado di soddisfare questi ultimi, ed effettua verifiche sul campo per vedere se si sono applicate bene le regole e per efficientare la struttura.
In secondo luogo nel fornire una stabilità regolatoria di fondo, aspetto che non può che passare dalla rinuncia ad alcuni egoismi, a un’azione collaborativa e sinergica fra le Istituzioni e a un’azione di lobby matura e intelligente. Il 3 marzo 2013 è stata approvata la Strategia energetica nazionale: con tutti i possibili limiti del provvedimento sarebbe utile adoperarlo come base, piuttosto che puntare a disfare nuovamente tutto.
Occorre infine rinunciare alla logica assistenziale tipica di questo Paese per passare a un’ottica imprenditoriale, diffusa nelle economie sane. Da noi sembra normale chiedere il capacity payment per gli impianti termoelettrici in crisi a causa del calo della domanda, di un eccesso di capacità installata e della crescita del fotovoltaico superiore alle aspettative. Ma la risposta non può essere questa. Va cercata in una modifica delle regole che garantisca in tempi adeguati un confronto alla pari fra i contendenti, eliminando un po’ per volta tutti gli incentivi ora esistenti, sia diretti, sia indiretti. Il mercato troverà le modalità per svilupparsi e rispondere agli obiettivi esistenti.
Oggi come oggi il problema non è trovare interventi interessanti e convenienti da realizzare. Il problema è superare quelle barriere che rendono difficile lo sviluppo di modelli di business capaci di funzionare in un contesto di crisi e di incentivi (e rendimenti) decrescenti. Istituti di credito, fondi e capitali di rischio interessati a investire in questo settore su cifre superiori al milione di euro non mancano. Quello che non si trova altrettanto facilmente sono progetti pronti da realizzare presentati con un’analisi e con una copertura dei rischi adeguate (così come risulta difficile trovare i rendimenti eccessivi offerti fino a due anni fa dagli incentivi al fotovoltaico e garantibili con il vincolo sugli incentivi statali erogati dal GSE). E qui torna utile avere impegnato risorse in diagnosi energetiche, poiché rende più semplice produrre business plan credibili.
Spesso, però, investire in efficienza energetica significa considerare investimenti nell’ordine delle decine di migliaia di euro, per i quali è più complicato trovare soggetti disposti ad erogare il credito. Il fatto è che, sebbene interventi piccoli e diffusi presentino un profilo di rischio più basso, la valutazione tecnica di progetti piccoli è difficile e costosa. Così come non è sempre facile misurare i risultati ottenuti, in assenza di dati storici. A parte gli ambiti di azione delle grandi realtà che erogano servizi energetici – che possono pensare di accedere al credito grazie alle loro dimensioni – può dunque essere opportuno un supporto, anche pubblico, che aiuti a sviluppare dei prodotti finanziari standardizzati per le soluzioni tecnologiche più semplici e replicabili (che mettano a disposizione degli utenti finanziamenti a tasso zero o agevolato). Vi sono poi già adesso iniziative mirate a costituire fondi di garanzie privati basati su accordi fra ESCO e istituti di credito, con la partecipazione di fondi di investimento e talvolta dei clienti beneficiari (ad esempi per impianti di climatizzazione per condomini).
Quello che serve è spostare l’attenzione dal continuo cambiamento delle regole, asservito alla lobby di turno e a un’ottica assistenzialista, a un economia pratica che sappia far fruttare le iniziative private.
Al nuovo Governo e al Parlamento chiederei di creare un task force interministeriale per riorganizzare tutta la normativa in testi unici e di obbligare i ministeri e le agenzie a scrivere provvedimenti integrati (come peraltro fa ad esempio l’Autorità per l’energia da tanti anni). Chiederei poi di investire in conoscenza, informazione, formazione e qualificazione professionale. Ed infine di pensare a fondi di garanzia, piuttosto che a incentivi alle tecnologie, almeno per le soluzioni che presentano tempi di ritorno accettabili (ovviamente le lobby devono essere responsabili): aiuterebbe il mercato a crescere sulle sue gambe.