Lo schema dei certificati bianchi (alias titoli di efficienza o TEE) è caratterizzato da complessità proprie di un sistema di obbligo unito a un mercato di compravendita dei titoli necessari per conseguire l’obbligo stesso, per cui risulta più difficile e sfidante da gestire rispetto a meccanismi di supporto più semplici. Sebbene i risparmi energetici generati nell’ambito del meccanismo siano consistenti (oltre 27 milioni di tonnellate equivalenti di petrolio cumulate dal 2005), le magagne non sono dunque mancate e – complici un’aggiornamento delle linee guida non tempestivo, alcuni errori di gestione e l’atteggiamento truffaldino di alcuni operatori – si è finiti in una situazione critica. Produzione di TEE insufficiente, risparmi annui in calo, prezzi dei certificati e costi del sistema cresciuti i sintomi della malattia. Possiamo uscirne?
Di seguito alcune considerazioni sul tema, di cui ho parlato alla conferenza annuale FIRE sui certificati bianchi.
Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la dritta via era smarrita.
Riuscire a calibrare domanda e offerta è uno dei requisiti più difficili da soddisfare nello schema dei TEE. Come mostra la presentazione riportata di seguito, l’idea è sempre stata di avere a che fare con risparmi annui crescenti nel tempo. Apparentemente un’idea semplice: ogni anno si aggiungono risparmi nuovi a quelli dell’anno precedente, dunque la crescita continua. Si sono però trascurati due elementi.
In primis, al termine della vita utile degli interventi (per molto tempo prevalentemente pari a cinque anni), questi cessano di generare TEE. Ciò significa che l’anno successivo per avere una crescita dei risparmi annui i risparmi generati dai nuovi interventi deve essere superiore a quelli cessanti. Nelle prime fasi di funzionamento dello schema questo si è avverato, in quanto la progressiva comprensione del suo funzionamento e l’aumento dei proponenti e delle proposte ha garantito tale condizione.
In seguito, invece, ha prevalso il secondo aspetto critico. Le modifiche delle regole che si sono succedute nel tempo hanno via via limitato la possibilità di presentare progetti, fintanto che i risparmi collegati alle nuove proposte sono risultati inferiori a quelli cessanti per il termine della vita utile. Le modifiche citate hanno riguardato in particolare l’esclusione di interventi diventati non più addizionali (a cominciare dalle lampade fluorescenti compatte e dai rompimento aerati) e di soluzioni sovraincentivate (anche a causa dell’introduzione del coefficiente moltiplicativo tau), nonché l’impossibilità di presentare progetti già avviati. A questo si è inoltre aggiunta una progressiva restrizione delle regole relative alla misura e verifica dei risparmi, l’eliminazione delle schede standard non basate sulle misure dei consumi, e procedimenti di valutazione e verifica sempre più stringenti. Scelte e conseguenze sono state analizzate da me in un articolo ampio lo scorso anno.
Al di là delle motivazioni – in buona parte condivisibili – che hanno portato a queste modifiche, l’effetto è stato quello di ridurre anno per anno l’entità dei risparmi generati da nuovi progetti, con la conseguenza che gli obblighi crescevano e i titoli sul mercato (e ancora più i risparmi energetici generati) diminuivano. Le truffe di grande dimensione perpetrate fra 2016 e 2017 hanno a questo punto dato il colpo di grazia all’equilibrio del sistema.
Che insegnamento trarne? Che un simile schema può funzionare, nell’ipotesi di obblighi crescenti, solo evitando di introdurre vincoli eccessivi nel corso degli anni, oppure allargando progressivamente il paniere degli interventi ammissibili. In sostanza è impossibile coniugare regole sempre più stringenti con la crescita degli obblighi se non si hanno opzioni espansive (per interventi o settori ammessi, o territori coinvolti). Occorre dunque scegliere a cosa dare priorità: la crescita dei risparmi (ad esempio in ottica art. 7 direttiva efficienza energetica) o il supporto rigoroso ed efficiente dei soli risparmi energetici addizionali? Nel primo caso le regole devono privilegiare l’allargamento del paniere degli interventi, facilità di accesso e di rendicontazione, presenza di metodi di valutazione dei risparmi semplificati almeno per soluzioni di piccola e media taglia. Nel secondo si possono premiare solo le soluzioni che ne hanno veramente bisogno e garantire i risparmi, qualificando nel contempo il mercato (soluzioni, operatori, servizi, etc.).
Scegliere lo scopo del meccanismo è dunque fondamentale per decidere che obiettivi definire e che regole fissare. Gli altri ingredienti sono un dialogo continuo ed aperto fra GSE e operatori (tema su cui fortunatamente la situazione è in netto miglioramento), perché l’efficienza energetica è un tema articolato e complesso, e la capacità del Ministero dello sviluppo economico di monitorare la situazione con attenzione per intervenire tempestivamente (capacità verificatasi nei primi anni di vita dello schema e purtroppo persa dal 2007 in poi, col risultato di fare crescere troppo i problemi).
Il passaggio di Dante dall’inferno al paradiso è lungo e faticoso, ma il premio è grande. Qui parliamo solo di uno schema di incentivazione partito per generare risparmi e finito (si spera temporaneamente, come i TEE “virtuali”) in un mare di contenzioso, ma le ricette – dialogo (e dunque ascolto), studio e competenza, scelte ponderate – sono le stesse che servono per salvare il Paese e la società da una deriva basata su odio, grida e contrapposizione. La storia, che si ripete, dice chiaramente dove porta tutto questo. In entrambi i casi, con il giusto sforzo e le giuste frequentazioni, possiamo uscire dalla selva oscura…
La presentazione, oltre alle diapositive usate per sfondo a queste considerazioni, illustra i risultati di un’indagine FIRE su problemi e proposte di miglioramento e mostra come ci sia fiducia nella ripresa dello schema da parte della maggior parte degli operatori che hanno risposto. Un elemento che conferma che si può uscire dall’impasse.
E quindi uscimmo a riveder le stelle.